Nella lotta dei diritti vince sempre il più forte

ABORTO POST-NASCITA E LICENZA DI UCCIDERE

È abbastanza recente la notizia che la Nuova Zelanda — che fino a ieri si riteneva fosse una fra le nazioni più “retrograde” e restrittive in materia di legge sull’aborto— avesse aperto alla possibilità di effettuare l’interruzione di gravidanza fino al nono mese.

La notizia è stata subito smentita, si è detto che in realtà la procedura è stata solo snellita ed è stata data la possibilità alle donne di abortire in maniera più veloce, comunque sia entro le venti settimane di gestazione, mentre dopo la ventesima settimana l’IVG potrà essere effettuata solo in seguito al parere favorevole di due consulenti medici.

Siamo dunque di fronte ad una situazione di “perfetta normalità”, e tutto procede secondo le normative vigenti in ogni paese che si dica evoluto e sensibile ai diritti delle donne. A dir loro dunque, lo spettro dell’aborto al nono mese continua ad essere solo uno spauracchio, frutto della fantasia isterica di alcuni cattolici e degli aderenti ai movimenti pro-vita.

Non mi dilungherò sulla vicenda, che è stata oltretutto velocemente archiviata dalla stampa, vorrei però riproporre le considerazioni di due brillanti filosofi bioeticisti, Alberto Giubilini e Francesca Minerva (studiosi pro-choice quindi favorevoli all’aborto) che nel febbraio 2012 in uno scioccante articolo pubblicato sul Journal of Medical Ethics, hanno mostrato con estremo candore e consequenzialità logica, l’inevitabile sviluppo della posizione abortista, liberandola però dagli atteggiamenti ipocriti e negazionisti che riguardano primariamente quelli che l’aborto lo difendono.

La tesi sarebbe questa: se per qualche motivo è lecito effettuare un aborto a qualsiasi stadio della gravidanza, non c’è motivo per non ritenere lecita l’uccisione di un bambino appena nato.

La questione non è nuova nell’ambito della discussione fra anti-abortisti ed abortisti, è però quantomai attuale, visto che oltreoceano si dibatte da tempo anche sul partial birth abortion, ossia la soppressione di un feto prima che sia completamente uscito dal canale del parto.  

Attualmente in America non vengono imposte restrizioni sulle tempistiche di attuazione dell’aborto “solamente” in otto Stati e in Whashington DC. In ogni caso la condizione che legittima e mitiga l’impatto di questa “dolorosa scelta”, rimane, come di consueto, la presenza di gravi malattie del feto o il serio rischio di vita o di salute per la donna. In altri termini, possono esistere cause di forza maggiore per cui è opportuno scegliere un male che è considerato, in ultima analisi e in via del tutto eccezionale, un bene, per chi è soppresso, per chi decide di sopprimere, o per la società.

Siamo quindi di fronte ad una vera e propria contraddizione per cui il bene e il male assumono significati interscambiabili e sfumati, soggetti alla variabilità delle circostanze, dei luoghi e delle epoche. Chi non è d’accordo, se va tutto bene, viene solamente accusato di avere una visione medievale.

Ciò che l’embriologia ci dice oggi, è che dal momento del concepimento, ossia dal passaggio dello stato di due cellule (ovocita e spermatozoo) allo stato di una nuova cellula, si manifestano eventi di natura biologica, biochimica, biofisica e genomica tali, da poter essere catalogati come il comportamento non di una qualunque semplice cellula ma di un “individuo”.

Nell’istante immediatamente successivo alla fusione dei gameti femminile e maschile (singamia), quando il nuovo organismo è strutturalmente costituito da una sola cellula, e ancor prima della fusione del patrimonio genetico materno e paterno (cariogamia) che avverrà alcune ore dopo, la nuova cellula è in grado di coordinare la prima divisione cellulare. Ci troviamo dunque di fronte ad una realtà con un’identità precisa ed autonoma rispetto a quella della madre, un codice genetico originale, un programma di accrescimento perfetto ed una vitalità tali, da potersi ritenere in sé, già un uomo.

Quello che da molti è considerato solo un “grumo di cellule” presenta alcune caratteristiche proprie di un organismo umano, soprattutto la capacità di una perfetta integrazione funzionale, il grumo di cui si parla dunque, ha funzioni perfettamente organizzate e coordinate.

Il ciclo a cui andrà incontro il nuovo individuo non prevede salti o interruzioni; le fasi di embrione, feto, neonato, lattante, bambino, ragazzo, adolescente, adulto, anziano, vecchio…, sono definizioni usate per comodità, per convenzione, ma non intaccano minimamente la “sostanza” che abbiamo di fronte, che è “sostanza” umana.

Quali possano essere le differenze tra un embrione e un feto, e con quale criterio si debba arbitrariamente decidere che sia lecito sopprimere una vita entro i primi tre mesi o, in alcuni casi, entro le prime 25 settimane (oltre i 6 mesi) di gravidanza, non è dato saperlo con certezza.

Stiamo ancora aspettando una risposta da una certa scienza-laica.

Un dibattito importante (almeno negli ultimi 50 anni) riguarda il concetto di “persona”, ossia ci si chiede se i feti o i neonati posseggano o meno, quei requisiti che gli consentano di avere un diritto alla vita e dunque di non essere uccisi.

Il tema è molto complesso e non può essere affrontato in queste poche righe, basti dire che non tutti concordano sul fatto che la questione della “persona” sia dirimente.  L’ideologia femminista ad esempio la considera del tutto irrilevante.

La molteplicità delle opinioni non permette di definire una soglia moralmente decisiva che funga da spartiacque. Se l’embrione o il feto non possono godere sempre e comunque di una dignità tale che li renda titolari di diritti, in quale stadio della vita un uomo può essere definito tale? È inevitabile che la discussione si spinga anche oltre il momento della nascita, momento in cui, una volta fuori dal corpo della madre, il neonato diventa un essere indipendente (non indipendente in senso assoluto ma in un senso assolutamente rilevante) e la madre dovrebbe perdere il diritto di scelta sul destino del feto. Questa in realtà è l’unica evidente differenza che può essere rilevata.

Anche il neonato però potrebbe non possedere in pieno tutte le caratteristiche richieste per la “patente” di persona, non è dunque certo che possa godere del diritto di vivere. Questa affermazione potrebbe sembrare assurda, ma in realtà questi temi sono da tempo ampiamente dibattuti in ambito filosofico-bioetico laico e arriviamo dunque alla posizione di Giubilini e Minerva che a questo punto diventa non solo possibile, ma anzi, del tutto logica: che differenza c’è tra un essere umano ancora nel grembo materno ed uno che ne è appena uscito?

L’idea della possibile soppressione di un neonato urta profondamente contro la coscienza della maggior parte delle persone, ma è anche evidente che si sta radicando nella società una dimensione utilitaristica dell’esistenza, per cui il “valore” di una vita è secondario ad una miriade di condizioni, e in questa lotta tra “diritti” vince sempre il più forte: la madre-sul feto, gli adulti sui bambini, i sani sui malati.

L’ipocrisia dilagante si nutre di una spasmodica operazione di banalizzazione. Nel recente dibattito sulla RU-486 appare chiaramente come l’obiettivo ricercato è quello di un aborto precoce, veloce, senza “effetti collaterali”. Il problema non c’è e se c’è deve essere ridotto al minimo. Meno costi per la sanità, meno traumi per la donna (?) e non ci pensiamo più.

Sulle pagine dei social dilagano immagini inquietanti in cui si fanno affermazioni tanto semplicistiche quanto sciocche – aborto: hai un utero? Si: scegli tu. No: taci (evidentemente chi è in possesso dell’utero deve aver concepito in autonomia); c’è poi la ragazzina che balla e canta mentre sta andando ad affrontare il suo secondo aborto e posta il video su Tik Tok.

I piani su cui si muovono i favorevoli e i contrari all’aborto sono profondamente diversi, ma il fatto di essere credenti o meno non è sicuramente determinante. Forse sarebbe opportuno che, chi ritiene di essere favorevole a questa pratica, ammettesse che le motivazioni che la legittimano sono profondamente deboli. L’esercizio della libertà umana relegato ad un processo utilitaristico di ordine personale o sociale, o il ricorso ai soliti proclami che inneggiano al rispetto dei diritti delle donne, non sono sufficienti a giustificare la soppressione di una vita. Si sta tentando di affrontare un problema serissimo attraverso argomentazioni superficiali e parziali, che potrebbero avere conseguenze drammatiche per il futuro della società: il diritto di uccidere potrà essere legittimato, in ogni momento.

Paola Caldarelli – Popolo della Famiglia Umbria

Paola Caldarelli

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